Pubblichiamo una sintesi dell’intervento di Georges Louis al meeting svoltosi al Csoa eXSnia di Roma, domenica 20 ottobre 2019
Il compagno Gilet Jaune che interviene, Georges Louis, è operaio nella ristorazione. Dipendente di una multinazionale (Elior) che gestisce mense aziendali e lui, appunto lavora in una di queste, con 160 salariati. Una situazione caratterizzata da un radicamento sindacale conflittuale, per cui Georges fa parte di una sezione sindacale combattiva da molti anni. Con i suoi compagni ha partecipato attivamente ai mesi di lotta contro la Loi du travail (il Jobs Act francese), lotta che già aveva segnato un forte salto di qualità nell’antagonismo di massa e di classe. La pausa che si è data fra i due movimenti corrispondeva all’avvio degli attacchi sociali della presidenza Macron, con le sue false promesse di cambiamento che si trasformavano in pesante approfondimento delle politiche liberiste. Ragion per cui la tensione sociale non era mai scesa e i militanti, le realtà di classe come la sezione sindacale di Georges, capirono subito che l’emergere di questo nuovo movimento, Gilets Jaunes, andava sostenuto, e che bisognava intervenirci.
Gli inizi
Il movimento trova la sua causa scatenante in un’ennesima tassa sui carburanti. Tassa a pretesa ecologica, risentita come un’offesa da parte di una gran parte di popolazione lavoratrice oggi confinata nelle grandi banlieu e, oltre, nelle zone rurali, pur gravitando attorno ai centri urbani nella propria attività quotidiana. Insomma un pesante balzello su una realtà di ceti, anche diversi, già impoveriti da tempo e che si vedono scivolare sempre più in basso. Infatti si assiste all’irruzione sulla scena pubblica di vasti strati di quel ceto medio che, di suo, è piuttosto conservatore e piccolo borghese di mentalità. Ceto medio che si è sentito tradito, oltraggiato proprio perché ligio alle leggi, all’ordine, agli imperativi economici. Macron diventava il simbolo di questa oppressione esercitata da un’elite politico-economica, percepita appunto come sempre più ricca, lontana, arrogante. Questo spiega anche il carattere esplosivo del movimento, proprio perché fatto da gente che non ha abitudine alla lotta e alla dimensione collettiva, da cui ne consegue anche una certa incoscienza e spontaneità rabbiosa.
La mancanza di un inquadramento politico e organizzativo, anzi la diffidenza verso le centrali sindacali, ha permesso un’immediata espressione di radicalità: la lotta era presa sul serio, con determinazione a “far danni”, a bloccare, intralciare traffico e flussi economici, ad assediare i palazzi del potere. Così punti nevralgici del movimento diventarono i blocchi ai “ronds points” – le rotonde agli incroci stradali – e i cortei verso le prefetture, fino al palazzo presidenziale sugli Champs Elysées. Modo di organizzarsi e di agire che riflette la capillare diffusione del movimento in tutta la Francia, e soprattutto la suddetta diffusione nelle aree rurali e decentrate. Perciò le rotonde diventano un luogo di aggregazione e di azione diretta sullo spazio economico sociale a portata di mano. E quando si pensa che questi blocchi, o anche solo presidi, sono stati circa 2.000 contemporaneamente, durante alcuni sabati, si ha l’idea dell’estensione e dell’intensità del movimento.
La lotta del sabato permette inoltre la partecipazione di altri strati sociali, operai e di piccole imprese. Cioè di questo tipo di lavoratori sovente sprofondati nella precarietà permanente, o nelle nuove forme statutarie di finto lavoro autonomo, che non sono in condizioni di scioperare o sindacalizzarsi e che pertanto vivono le condizioni di sfruttamento peggiore. Interinali, contratti a tempo determinato, part time imposti, ecc. Ma anche lavoratori autonomi effettivi, artigiani e persino liberi professionisti. La mobilitazione del sabato è diventata cioè la forma di lotta, territoriale, di questa nuova composizione sociale che è stata privata anche degli strumenti minimali di autodifesa sindacale.
Si è data una certa continuità fra i G.J. e il modo di operare del precedente ciclo di mobilitazioni, quello contro la Loi du travail (il Jobs Act francese), durante diversi mesi fra il 2016/’17. Anche allora vi fu una netta rottura con le pratiche abituali, ben controllate, inquadrate dalle centrali sindacali. Vi si imposero espressioni autentiche della base che volevano una “lotta vera”, che facesse danni ai padroni, al sistema. Da cui ne conseguì una triplice modalità d’azione “scioperare, bloccare, sabotare”. E i cortei vennero presi in mano da quest’autorganizzazione alla base: gli apparati sindacali (quando partecipavano) confinati al fondo, mentre la testa del corteo era presa dal convergere dei settori militanti antagonisti e dalle sezioni sindacali in lotta. Cortei che puntavano sempre a bloccare, invadere sedi padronali e statali, attaccare banche e altri istituti del capitale. E già allora, d’altronde, vi fu in risposta un’escalation della violenza poliziesca.
Confronto continuo
L’aggregazione spontanea, assembleare (in particolare attorno ai suddetti ronds points) ha favorito lo sviluppo di continui momenti di dibattito. Tutto viene continuamente discusso e, insieme, si cerca una sintesi sia sui contenuti che sulle azioni da condurre. Questo ha permesso una profonda evoluzione proprio sugli aspetti più arretrati portati da questi settori di ceto medio. Evidentemente una contraddizione principale è quella sull’immigrazione. Presente era anche l’idea reazionaria, che identifica fra l’altro il peso del sistema fiscale con le larghezze concesse agli “assistiti”, e quindi a rifugiati e immigrati. Gruppi fascisti hanno cercato di inserirsi in questa contraddizione e di alimentare il vento razzista populista. Ma hanno trovato di fronte le componenti di classe determinate a non lasciar loro spazio. E in generale la maggioranza G.J. percepiva questa infiltrazione come una classica manipolazione politica a finalità elettorale. Lo stesso movimento antifa è entrato in gioco, con l’obiettivo dichiarato di espellere questi fascisti. E così si è giunti anche a scontri fisici (documentati da video), con un risultato finale nettamente positivo, anche se non va sottovalutata la profondità sociale-culturale di certi pregiudizi, o meglio di un certo opportunismo filo-imperialista.
Altro retaggio messo in avanti all’inizio era quello sulla apoliticità del movimento. Ciò che è stato, via via, affinato come apartitismo, come rifiuto dei partiti istituzionali. Mentre le componenti di classe cercano di sostenere la necessaria e inevitabile dimensione politica, da intendersi nei contenuti sostanziali, obiettivi e critica sociale che si esprimono. Così la sostanza anticapitalista è venuta emergendo, attraverso la critica di un sistema istituzionale completamente arroccato attorno ai centri di potere economico (multinazionali, finanza, istituzioni transnazionali come l’UE e la sua Banca Centrale, FMI, ecc.).
La stessa invasione degli Champs Elysées ha dato luogo a questo tipo di evoluzione: in un primo tempo prevaleva la tendenza politica alla destituzione di Macron (con dei contenuti di tipo antiparlamentare, sovranista, di nuova Costituzione), mentre in un secondo tempo ha prevalso una tendenza più classista a voler semplicemente colpire i centri del potere e della ricchezza. Quindi l’assalto ai negozi di lusso e gli incendi di tutto ciò che rappresenta ricchezza e potere. Il compagno ribadisce più volte che un fattore trainante è comunque una grande rabbia, una determinazione a mettersi contro il sistema e ad assumere il fatto che, così facendo, ci si pone nell’illegalità. La violenza viene assunta coscientemente. Soprattutto nei primi Atti, sabati, la violenza era estremamente autentica, come una forma di liberazione del corpo e dello spirito – sorta di catarsi “ci avete distrutto la vita e i nostri quartieri, ora distruggiamo i vostri!” – tanto da sorprendere, meravigliare pure i militanti antagonisti di classe. Ma questo aspetto non si disgiunge da quelli di contenuto, di volontà di incidere per trasformare la realtà.
Assemblee nazionali
Ed è lì che, a un certo punto, si dà anche una prima strutturazione del movimento. Per iniziativa dell’assemblea locale di un piccolo comune, Commercy (nell’est francese), viene lanciato un appello programmatico a riunirsi periodicamente come coordinamento per tutte le località in lotta. A febbraio si riesce a realizzare la prima Assemblea delle assemblee. Definizione significativa che, addirittura, comincia ad evocare la Comune di Parigi come riferimento storico e politico. L’autogoverno popolare, la partecipazione di massa, il rovesciamento della struttura economico-sociale oppressiva, e l’insurrezione armata come suo mezzo fondamentale. Certo qui si è solo ai primordi di un tale processo, ma quello è un orizzonte cui si guarda. Centinaia di delegati affluiscono da altrettante località organizzate, da quelle di quartiere delle grandi città ai piccoli comuni, fino ad alcuni villaggi. La pratica è quella dell’assemblea orizzontale, dove si cerca la partecipazione attiva di tutt* e una sintesi il più possibile coinvolgente. Rifiutando per contro le impostazioni gerarchiche e di delega. Tre giorni di intenso dibattito e reciproca conoscenza, di comunanza e tessitura di legami. Il tutto riassunto poi in dichiarazioni finali.
Successivamente ci saranno altre due Assemblee nazionali, quella a Saint Nazaire particolarmente importante. Il luogo scelto è uno storico bastione operaio, un porto sull’Atlantico sede del più grosso cantiere navale francese, con una storia di lotta di classe. Assemblea tenuta nel mese di maggio, 750 partecipanti per 280 località. Il dibattito ha focalizzato le questioni di programma, gli obiettivi sostanziali che ci si pone. Così rapidamente, attraverso gli obiettivi più sentiti – ripartizione della ricchezza, ripresa di servizi pubblici universali e gratuiti, contro le privatizzazioni, aumento generalizzato di salari e pensioni, riduzione pressione fiscale, ecc. – si è giunti alla grande questione sistemica. Siamo contro il capitalismo? E con cosa rimpiazzarlo? Qui il dibattito rivela, in effetti, il coesistere di almeno due tendenze: una certamente radicale, portata dalle componenti di sinistra di classe, e quindi nettamente anticapitalista e, infine, rivoluzionaria socialista. Un’altra invece, seppur radicale e determinata nella lotta, piuttosto riformista: si tratterebbe di restaurare il ruolo ripartitore, armonizzatore dello Stato, garantendo il diritto di proprietà privata dei mezzi di produzione. Posizione portata ovviamente da quegli strati di ceto medio e di piccola imprenditorialità e artigianato, molto presenti nel movimento. Nei fatti una limpida caratterizzazione delle frazioni di classe e delle rispettive ideologie. Che, per tutta questa fase, riescono comunque a convivere, nella rabbia comune contro lo strapotere e l’oppressione esercitata dalla grande élite borghese e statale. Tant’è che se ne esce da questa Assemblea di Saint Nazaire con una notevole dichiarazione finale, e altre allegate su temi particolari, e con precisa determinazione sull’obiettivo strategico di attacco alla ricchezza là dove esiste e di blocco, sabotaggio dei flussi economici, di produzione e commercializzazione, come forma di lotta principale.
La terza Assemblea viene tenuta a Montceau les mines, cioè in uno storico (ex)bacino minerario. Anche in questo caso il richiamo è alle radici del movimento operaio. Il dibattito proseguirà sul filo di queste stesse questioni. Una in particolare riemergerà per il suo interesse tattico, il rapporto con i sindacati. Abbiamo detto che dall’inizio delle mobilitazioni si crea una netta cesura nel loro seno: molte sezioni locali, di azienda e territoriali, si gettano nella mischia, capendo che si tratta anche, in un certo senso, di continuità con la lunga lotta che loro avevano sostenuto contro la Loi du travail, nel biennio 2016/’17, mentre le centrali sindacali si tengono a distanza e anzi arrivano a condannare la violenza dei Gilets Jaunes. Questo non farà che attizzare ancor più il dissenso al loro interno, soprattutto quando si vedrà, viceversa, tutta la loro timidezza nel criticare la violenza poliziesca. Si crea cioè una situazione di ambivalenza e di oscillazioni: le centrali respingeranno i pressanti inviti, dai G.J. e dai loro stessi militanti, a proclamare uno sciopero generale in concomitanza con i punti alti della rivolta, in particolare a dicembre, quando il potere era nella situazione più difficile. Al tempo stesso, una parte considerevole della base agisce per proprio conto, si associa ai G.J. e non rispetta le indicazioni del vertice. Ma questo è molto fluttuante, a seconda delle situazioni. E riguarda solo la CGT (l’equivalente della CGIL), occasionalmente sezioni di base delle altre due centrali. Convinta e continua è invece l’adesione al movimento da parte di SUD-Solidaires (l’equivalente dei Cobas).
Il momento più forte di convergenza si è dato attorno allo sciopero generale che, infine, fu convocato il 5 febbraio 2019, un concentramento di 3.000 cegetistes (aderenti alla CGT) e gilets jaunes blocca una notte intera il gigantesco mercato generale di Rungis, alle porte di Parigi (in pratica il polmone alimentare della metropoli, e con apertura internazionale essendo il più grande in Europa), poggiando appunto sullo sciopero interno. Una bella prova di forza, anche se il potere interviene rapidamente e pesantemente per impedirne il proseguo. Gli sviluppi di questa dialettica fra gilets jaunes e settori del sindacalismo di base sono ancora condizionati dal boicottaggio delle centrali, ma sicuramente carichi di potenzialità. In tutti i casi a partire dalla determinazione dei G.J. a continuare, a non smobilitare finché non si raggiungano risultati soddisfacenti. E notare che, comunque, finora ne sono stati raggiunti: il governo ha elargito fra i 4/5 miliardi di euro fra ritiro della contestata tassa sui carburanti, aumenti generalizzati dei minimi salariali e pensionistici, bonus annuale e altre impegni di spesa pubblica sociale (risultati ben concreti e sostanziosi che hanno acuito ancor più le contraddizioni in sede sindacale, la base mobilitata rinfacciando alle direzioni la nullità delle loro mobilitazioni e politiche rivendicative, collaborative).
Le scadenze prossime sono ormai il 17 novembre, anniversario d’inizio del movimento: un anno di lotte, e a che livello! Per l’occasione obiettivo sarà attaccare la Borsa e, in particolare, le multinazionali del listino CAC40, cioè i 40 maggiori gruppi capitalistici francesi. Più chiaro di così..!
«La lotta è dura e non ci fa paura»
La forza, la continuità di questo movimento va ancora apprezzata rispetto al durissimo confronto con la repressione. Nei fatti questa è stata presto la risposta strategica del potere. La violenza fisica perpetrata da polizia e gendarmeria è stata, è, sistematica e pesante. Circa 3.000 feriti, fra cui quasi 200 mutilati (perdita di un occhio, di una mano, ferite profonde a piedi e gambe, al viso, le immagini dei mutilati parlano da sole). E questo a causa sia dell’uso criminale dei normali lacrimogeni sia, soprattutto, delle LBD, sorta di bombette a frammentazione, di pezzi di plastica dura e alluminio. I G.J. parlano chiaramente di politica terroristica, di un chiaro intento di demoralizzare la partecipazione con i metodi più brutali. E ci sono pure i morti: un’anziana donna uccisa con uno di questi colpi in faccia, a Marsiglia; un giovane annegato in un fiume per sfuggire ai poliziotti, a Nantes; due G.J. falciati da gendarmi in civile in auto, forzando un blocco stradale. E un’altra quindicina caduti allo stesso modo, ai blocchi, sia per l’aggressività di qualche automobilista sia per incidenti. Un bilancio pesante. C’è poi la repressione giudiziaria: circa 11.000 fermi di polizia, più di 3.000 condanne in primo grado, oltre 200 detenuti attualmente (con un picco di 440 in estate) e migliaia di altri procedimenti giudiziari in corso. Cifre impressionanti, tanto più quando si pensi che riguardano principalmente gente comune che non ha mai avuto a che fare né con le lotte né, ancor meno, con carcere e tribunali. Eppure resistono!
Ovviamente la resistenza si è organizzata, grazie a compagn* già coinvolt* in questo tipo di attività, si sono formati Coordinamenti antirepressione in varie zone, aree metropolitane. Si assistono i prigionieri, in particolare nei passaggi in tribunale, sostenendo la difesa in termini politici, rivendicando le ragioni della lotta. Se ne fa campagna politica ampia. E poi il sostegno economico, anche per le famiglie, e le spese per avvocati. Lo sforzo per assumere collettivamente il tutto è un altro aspetto che rafforza il movimento stesso, ne sviluppa lo spirito comunitario.
Il compagno Georges conclude evocando le similitudini con le recenti insorgenze popolari in Cile, Ecuador, Catalogna, Iraq e Libano. Al di là dei motivi scatenanti, e di specificità locali, c’è un’evidente affinità di fondo in vere e proprie rivolte da esasperazione contro l’impoverimento sistematico imposto dalle politiche liberiste e contro un autoritarismo che sconfina in forme di militarizzazione sociale. Il tutto a difesa di élite sfacciatamente ricche, sempre più ricche. E ovunque lo scontro diventa molto violento, la gente lo assume, così come rifiuta le forme istituite di rappresentanza e cerca nuove vie con l’autorganizzazione, orizzontale e comunitaria.
E altre insorgenze
Su sollecitazione di successivi interventi si sono approfondite un paio di tematiche. Quella di genere, verificando il tipo di partecipazione femminile e le eventuali contraddizioni presenti. Se indubbiamente un movimento così popolare e spontaneo, fatto da “gente comune”, portava con sé vari aspetti di arretratezza, non di meno nel fuoco della lotta si è dato un processo di maturazione intenso e rapido. Tant’è che a un certo punto è emersa anche una partecipazione femminile organizzata, specifica.
La stessa cosa si può dire per l’altra tematica, quella razzista, oggi al centro di tutte le tensioni. Ancor più, come descritto, qui si è dovuto lottare per vincere le tendenze reazionarie ben diffuse. Fino allo scontro fisico con i gruppi fascisti. Da allora l’evoluzione è stata notevole, verso l’unità internazionalista contro il comune nemico capitalista. E si è giunti al formarsi dei Gilets Noirs, cioè di un raggruppamento di proletari, operai di origine africana che, oltre a porsi in continuità con le loro precedenti lotte per avere documenti e regolarizzazione di soggiorno (i Comités Sans papiers), si pone ora a fianco dei G.J. nella loro rivolta generale contro il sistema, rafforzandovi gli aspetti antimperialisti e antirazzisti, di classe. Un apporto molto significativo e consistente. L’occupazione del Pantheon a Parigi (sacrario della patria e dei suoi grandi uomini) da parte di alcune centinaia di gilets noirs voleva appunto portare al centro dello scontro l’esistenza dei popoli colonizzati, dalla Grandeur française, e super sfruttati ancor oggi nella metropoli. Azione eclatante al culmine di altre, minori e diffuse, contro le multinazionali, i grandi padroni che sfruttano il lavoro operaio degli immigrati, azioni che caratterizzano il movimento in termini di classe.
Concludendo, non si poteva che riprendere l’inizio:
Ce n’est qu’un debut – continuons le combat!
Video dell’intervento di Georges Louis alla Panetteria occupata di Milano il 18 ottobre 2019