di Paola Staccioli
Taranto è una città perfetta. Viverci è come vivere nell’interno
di una conchiglia, di un’ostrica aperta. Qui Taranto nuova, là, gremita,
Taranto vecchia, intorno i due mari, e i lungomari.
Pier Paolo Pasolini, La lunga strada di sabbia, 1959.
Il 2012 segna uno spartiacque nella storia dell’Ilva di Taranto, la più grande fabbrica siderurgica d’Europa, con una superficie che supera il doppio dell’intera area urbana. Attualmente lo stabilimento pugliese occupa circa 8.200 dipendenti (prima della gestione ArcelorMittal erano 10.300), a cui si aggiungono 3.000-3.500 lavoratori delle imprese dell’indotto e 1680 degli stabilimenti di Genova e Novi Ligure.
L’originaria Italsider, pubblica, è nata negli anni Sessanta anche su richiesta dei sindacati e del Partito Comunista. Ma alcune voci isolate già allora denunciavano il problema dell’inquinamento. Nel giugno del 1965 Alessandro Leccese scriveva nel suo diario privato: «Quando […] sono intervenuto, in qualità di Ufficiale Sanitario, con un’ordinanza indirizzata al Direttore del Centro Siderurgico e al Presidente dell’area di Sviluppo Industriale, è successo il finimondo, perché quest’ultimo, che, tra l’altro, è segretario provinciale della Dc, si è sentito leso nella sua insindacabile sovranità. Si ritiene tanto potente da poter condizionare anche le decisioni del Prefetto, come accadeva all’epoca del “famigerato regime”, tra il Federale e il Prefetto. Per lui non conta la tutela della città da un grave danno ecologico, contano la difesa del prestigio personale e gli interessi di alcuni esponenti politici, che ritengono di poter disporre a loro piacimento delle sorti del nostro territorio, come si trattasse di una colonia africana da sfruttare».
L’Italsider raggiunge il massimo dell’espansione alla metà del decennio successivo, quando impiega circa 40 mila lavoratori, includendo il sistema di appalti e indotto. Negli anni Ottanta una forte crisi della siderurgia investe l’Europa. Il processo di privatizzazione inizia con Lamberto Dini e viene concluso nel 1995 dal primo governo Prodi. Il Gruppo Riva, guidato dal patron Emilio, acquista l’acciaieria – tornata al nome di Ilva – a un prezzo “simbolico”, 1649 miliardi di lire, più un debito di circa 1.500 miliardi. Il fatturato è di circa 9.000 miliardi l’anno. Un solo anno è sufficiente per ripagare l’investimento.
In un decennio il turnover della manodopera è quasi completo. L’azienda fa ricorso agli ammortizzatori sociali, ma convince anche gli operai ad andare via in cambio dell’ingresso di figli e parenti. I lavoratori sindacalizzati sono sostituiti da giovani assunti con contratti di due anni, facilmente ricattabili. Tecnici e impiegati “ribelli” subiscono pesanti pressioni, che arrivano a forme di mobbing collettivo. Relegati in una sorta di reparto punitivo, la “palazzina Laf”, sono costretti a una inattività che annulla la loro dignità professionale e umana. Emilio Riva è condannato per violenza privata, ma il provvedimento non ha effetti concreti.
La famiglia Riva gestisce per anni il complesso industriale in una logica capitalista di sfruttamento intensivo degli impianti e delle risorse umane. Tralasciando di investire sulla sicurezza e sull’ambiente, punta ad aumentare la produzione e il profitto a discapito della salute e della vita dei lavoratori dell’Ilva e degli abitanti di Taranto. Nel 2006, in seguito alla chiusura dello stabilimento a caldo dell’Italsider di Genova, sono prodotte 14 milioni di tonnellate di acciaio.
Nella fabbrica si susseguono infortuni e morti provocati da impianti obsoleti e insicuri, da ritmi pesanti, dalla mancanza di un’adeguata formazione, dall’esposizione all’amianto, mentre polveri nocive e diossina avvelenano la città. I relativi processi (e condanne) finiscono in un nulla di fatto. È il rione Tamburi, il più vicino ai parchi minerali, a pagare maggiormente in termini di vittime provocate dall’inquinamento. Particolarmente colpiti sono i bambini, e gli addetti del cimitero di San Brunone, dove una stele posta nel 2012 dall’Associazione 12 giugno, composta da alcuni familiari delle vittime, ricorda i Caduti sul lavoro.
L’Ilva diviene una sorta di territorio franco, fuori da ogni legge. I sindacati confederali si rendono complici di questa situazione. Anche quando il problema dell’inquinamento esplode con chiarezza in tutta la sua drammaticità – nel 2009 vengono abbattuti circa 2000 capi di bestiame destinati all’alimentazione e contaminati dalla diossina – i controlli rimangono superficiali e discontinui, mentre sono concesse dilazioni nell’applicazione dei provvedimenti per limitare le emissioni nocive. Talvolta, anziché imporre all’Ilva il rispetto di regole e limiti, si arriva ad adeguare l’impianto normativo alle esigenze dell’azienda. A subire incredibili vincoli è la popolazione. Ordinanze del sindaco di Taranto proibiscono, tra l’altro, il pascolo per 20 chilometri intorno al polo siderurgico o il gioco nelle aree verdi, per un periodo vietano di seppellire i morti nel cimitero di Tamburi per non smuovere il terreno inquinato, stabiliscono gli orari in cui è sconsigliato aprire le finestre o fare sport all’aperto.
I Riva mettono in atto una potente campagna mediatica. A ogni timido tentativo di imporre un freno alle emissioni nocive, rispondono con un ricatto occupazionale. I pochi rappresentanti di istituzioni o enti locali che protestano sono messi a tacere. Talvolta il silenzio viene comprato.
La prima significativa inchiesta giudiziaria contro l’Ilva dei Riva esplode nel 2012. Il 30 marzo vengono resi noti i risultati della perizia chimica e dell’indagine medico-epidemiologica, disposte dal Gip Patrizia Todisco. Emerge un quadro drammatico rispetto all’immissione in atmosfera di centinaia di tonnellate all’anno di polveri nocive e per la prima volta sono ufficialmente collegati all’Ilva i disastri ambientali, i decessi anche infantili, ben al di sopra della media, per tumori e altre malattie. I periti cercano di quantificare le morti avvenute per cause attribuibili alla dispersione incontrollata di fumi e polveri sottili nell’aria (i più colpiti sono i quartieri Tamburi e Borgo), come i ricoveri annui per patologie cardio-respiratorie collegate all’inquinamento. Il maggior numero di decessi si registra nel quartiere Paolo VI, costruito negli anni Sessanta per le famiglie degli operai. Successivamente, i dati del progetto Sentieri dell’Istituto superiore della Sanità confermano la drammaticità della situazione.
Già il 30 marzo, mentre alcune centinaia di persone davanti al tribunale solidarizzano con l’operato dei giudici, i Riva entrano prepotentemente sulla scena. Capi, quadri e dirigenti organizzano una manifestazione corporativa, che viene presentata come una “marcia degli operai” contro l’inchiesta, scavalcando totalmente i sindacati. Ai manifestanti viene persino pagata la giornata, mentre gli striscioni sono serigrafati dall’azienda. Giù le mani dallo stabilimento. I sindacati chiedono di non partecipare, ma molti operai subiscono il ricatto, per paura di perdere il lavoro. Le cifre ufficiali parlano di sette-ottomila partecipanti. Pur se gonfiati, questi dati sono comunque inquietanti.
La città sembra dividersi in una contrapposizione insanabile fra i cittadini, che vogliono la chiusura degli impianti, e i lavoratori che difendono l’occupazione, pur essendo le prime vittime dei veleni. Presto però si rafforzano le voci di chi rifiuta la scelta fra lavoro e salute, entrambi diritti inalienabili. L’Ilva non vogliamo ma agli operai ci teniamo. Si afferma che il vero nemico di chi si batte contro la nocività non è la fabbrica in sé ma la logica capitalista. Mirando al profitto anziché alla salute della popolazione, l’attuale modo di produzione provoca malattie, morti e devastazione ambientale. L’azione della magistratura punta invece alla chiusura tout court degli impianti più inquinanti, non considerando la necessità operaia di difendere i posti di lavoro.
Il 26 luglio 2012 il Gip notifica il sequestro preventivo senza facoltà di uso dei sei reparti dell’area a caldo. Otto persone dei vertici Ilva vengono arrestate. Cinque tornano in libertà nei giorni successivi. Rimangono in detenzione domiciliare il fondatore Emilio Riva, suo figlio Nicola e Luigi Capogrosso. Accusati di associazione a delinquere per atti contro la pubblica incolumità, la pubblica amministrazione e la fede pubblica. In particolare per disastro ambientale, colposo e doloso, avvelenamento di sostanze alimentari, omissione dolosa di cautele per evitare infortuni sul lavoro, danneggiamento aggravato di beni pubblici, getto e sversamento di sostanze pericolose. La produzione non viene sospesa, ma in fabbrica si instaura un clima di terrore che porta persino gli operai a presidiare gli impianti per paura che vengano bloccati. Un altro filone delle indagini, denominato Ambiente svenduto, unito poi all’“inchiesta madre”, riguarda il sistema di connivenze e omertà. Collusioni e tangenti pagate dall’azienda in cambio del silenzio. Il responsabile relazioni esterne, Girolamo Archinà, poi arrestato e licenziato, è accusato di aver creato, grazie a generose elargizioni, una rete «di infiltrazione e manipolazione delle Istituzioni», per eludere i controlli sulla regolarità degli impianti, coinvolgendo anche la Curia di Taranto.
Il 26 e 27 luglio migliaia di lavoratori del siderurgico si riversano in piazza, effettuando blocchi stradali nella città. La protesta, in parte fomentata dai Riva, questa volta è anche espressione di una volontà autonoma di lotta degli operai. In poche ore governo e enti locali firmano un protocollo d’intesa «per interventi urgenti di bonifica, ambientalizzazione e riqualificazione di Taranto», poi divenuta decreto legge e quindi legge. Viene stanziata una cifra considerevole, ma assolutamente insufficiente e in parte priva di copertura finanziaria.
Il 2 agosto, mentre è in corso l’intervento di Maurizio Landini, un comizio di Cgil, Cisl e Uil è contestato da una irruzione di lavoratori. Guidati da un Apecar che diventerà il simbolo della protesta, superano il cordone di sicurezza dei sindacati confederali. Nasce il Comitato cittadini lavoratori Liberi e Pensanti, che denuncia le responsabilità e le connivenze dei sindacati e invita i tarantini a non delegare più la loro rappresentanza. Dal 2013 organizza ogni anno un 1° maggio “alternativo” a quello romano.
A fine ottobre 2012 muore schiacciato da un locomotore Claudio Marsella, del reparto Mof, movimentazione ferroviaria. Non è certo il primo, né sarà l’ultimo. Ma l’emozione è molto forte. Anche perché a creare le condizioni per l’incidente è un accordo sottoscritto due anni prima dai sindacati, che ha ridotto il numero di operai nel reparto promettendo una automazione poi non realizzata. I colleghi si mettono in sciopero e per alcuni giorni mantengono una tenda davanti ai cancelli del reparto. Alla lotta partecipa l’Usb, da poco costituitasi come sindacato all’Ilva, che sospende la protesta in cambio dell’impegno da parte della Regione a migliorare l’accordo.
Il 26 novembre sono emesse altre ordinanze di custodia cautelare nei confronti dei dirigenti Ilva. Fra i destinatari ci sono Emilio Riva (già ai domiciliari), suo figlio Fabio (rintracciato a Londra, torna in libertà dietro cauzione) e l’ex Assessore all’ambiente della Provincia di Taranto. Sono sequestrate un milione e settecentomila tonnellate di prodotti finiti e semilavorati, realizzati illegalmente con gli impianti sequestrati senza facoltà d’uso. L’azienda risponde con il consueto terrorismo psicologico. Annuncia la chiusura dello stabilimento di Taranto e a cascata degli altri. I badge dei lavoratori vengono disattivati. Gli operai costringono la fabbrica ad aprire e occupano la direzione.
Il 28 novembre un tornado colpisce il porto e la zona industriale. Fa crollare ciminiere, scoperchia capannoni e danneggia gli impianti. Rimane ucciso il giovane Francesco Zaccaria, che si trovava su una gru obsoleta, priva di meccanismi di sicurezza e dei controlli di legge. Inizialmente i colleghi rifiutano di riprendere il lavoro senza garanzie concrete sullo stato delle macchine.
Dopo la pubblicazione, nell’ottobre 2012, di una nuova Aia (Autorizzazione Integrata Ambientale), che in sostanza è un riesame di quella del 2011 a cui l’azienda non si è adeguata, l’Ilva presenta istanza di dissequestro degli impianti, pur se la produzione non è mai stata bloccata. La magistratura respinge. Il governo Monti incorpora allora l’Aia in un decreto “salva Ilva”, che poi diventerà legge, stabilendo che l’azienda può proseguire la produzione per 36 mesi. Un emendamento autorizza a commercializzare i prodotti realizzati durante il sequestro degli impianti, a condizione di rispettare le prescrizioni della nuova Aia, di per sé insufficienti e non idonee a bloccare le emissioni di diossina, benzo(a)pirene, metalli pesanti cancerogeni, ma anche soggette a continue proroghe, sanatorie e rimodulazioni degli obblighi e a una perdurante incertezza sulle coperture economiche. La magistratura ricorre contro il decreto, la Corte Costituzionale rigetta. I Riva, forti della nuova legalizzazione dei loro comportamenti criminosi, non rispettano nemmeno le prime scadenze, che in parte vengono rimodulate.
Gli anni dal 2012 al 2014 trascorrono così fra sequestri e dissequestri, manifestazioni ambientaliste e per la salute, lotte per la difesa del posto di lavoro, ricatti dei Riva, mancato adeguamento degli impianti, messa al riparo delle ricchezze di famiglia per evitare risarcimenti e spese di bonifica, decreti “salva Ilva” che permettono la prosecuzione degli illeciti. Il 14 aprile 2013 il referendum consultivo va deserto. I tarantini non accettano il ricatto, rifiutano di scegliere se rimanere senza lavoro oppure morire di cancro.
Nel maggio 2013 il Gip Todisco dispone il sequestro di equivalenti di beni del Gruppo Riva fino ad arrivare a 8,1 miliardi di euro, la somma presumibilmente risparmiata dal 1995 con il mancato adeguamento degli impianti alla sicurezza e alle normative ambientali.
Il 4 giugno 2013, con un decreto convertito in legge in agosto, il governo procede a un commissariamento temporaneo dell’Ilva, della durata massima di 36 mesi. Ma la fabbrica è affidata a Enrico Bondi, amministratore delegato dimissionario dell’azienda, a cui vengono restituiti ingenti capitali sequestrati, con il vincolo che li utilizzi per il risanamento e la messa in sicurezza. Bondi contesta i dati contenuti in perizie e studi sostenendo l’assurda tesi che l’eccesso di tumori a Taranto dipenda da un elevato consumo di sigarette, in particolare di contrabbando.
Durante l’estate, mentre il governo autorizza all’Ilva discariche già oggetto di procedimenti penali, e la Commissione Europea avvia una procedura di infrazione nei confronti dell’Italia per il mancato rispetto delle normative UE sulle emissioni industriali, vengono arrestati cinque fiduciari della famiglia Riva che avrebbero costituito una sorta di governo ombra nello stabilimento.
Nel marzo 2014 viene chiesto il rinvio a giudizio per cinquantatré imputati, tra cui tre società dei Riva. Ci sono anche il governatore della Puglia Nichi Vendola per concussione aggravata, relativa a presunte pressioni sull’Arpa in favore dell’Ilva, il sindaco di Taranto Ippazio Stefàno, per non aver tutelato la salute dei suoi concittadini, l’ex presidente della Provincia. A giugno si apre il processo. In assenza del principale imputato, Emilio Riva, nel frattempo morto a ottantotto anni.
A ottobre la magistratura afferma che l’attività criminosa dell’acciaieria non si è interrotta. Prosegue l’emissione rilevante di polveri determinata dal cosiddetto fenomeno di slopping, la dispersione di fumi rossastri nell’aria provocata dall’ossigenazione della ghisa. L’abbassamento dei valori è dovuto alla diminuzione della produzione, da quando l’azienda marcia con tre dei cinque altiforni.
Nel gennaio 2015 il governo Renzi pubblica il settimo decreto, che prevede una amministrazione straordinaria con intervento pubblico. Nei fatti contiene una sorta di condono del venti percento delle prescrizioni da attuare sugli impianti, e l’immunità penale e civile per il commissario straordinario. Viene nominato commissario l’ex presidente dell’Enel Piero Gnudi. La situazione non cambia. Anzi, nel periodo del commissariamento si intensificano gli incidenti, anche mortali.
Mentre in Corte d’Assise va avanti il maxiprocesso Ambiente svenduto per vari reati, fra cui il disastro ambientale doloso contestato alla gestione Riva – con oltre ottocento costituzioni di parte civile fra Ministero dell’Ambiente, enti locali, sindacati, privati, associazioni – si fanno avanti le ipotesi sui futuri acquirenti dell’Ilva. Delle due principali cordate in gara, il colosso indoeuropeo ArcelorMittal supera i concorrenti (Jindal, Arvedi, Cassa depositi e prestiti). Dopo una lunga trattativa, si arriva a un contratto di affitto finalizzato all’acquisto da parte della multinazionale. Diciotto mesi, a partire dal 1 novembre 2018, al termine dei quali la proprietà dovrebbe essere rilevata per 1,8 miliardi di euro, sottraendo quanto già pagato. Il contratto comprende anche investimenti ambientali per 1,1 miliardi di euro, industriali per 1,2 miliardi, il mantenimento dei livelli occupazionali. Attualmente i dipendenti diretti Ilva sono 10.700, di cui 8200 solo nello stabilimento di Taranto, più altri 3000-3500 nell’indotto. In totale, quasi 15 mila lavoratori. L’accordo prevede anche uno scudo penale per gli amministratori dell’azienda. In pratica, la prosecuzione dell’impunità per i crimini ambientali. La promessa dei dirigenti ArcelorMittal è la realizzazione di un piano in grado di rendere l’impatto ambientale del siderurgico di Taranto il migliore d’Europa. La nuova gestione, con i soldi recuperati dallo Stato ai Riva, ha realizzato una parte della copertura dei parchi minerali, sostituendo le inefficienti reti di barriera della gestione Riva, senza però eliminare l’inquinamento, l’emissione di poveri sottili, gli incidenti sul lavoro, tanto che nell’estate 2019 un giovane gruista, Mimmo Massaro, è morto in un incidente fotocopia di quello accaduto anni prima a Francesco Zaccaria.
Lo scudo penale, a un certo punto messo in discussione, ma poi riconfermato, dal governo Salvini-Di Maio, viene invece cancellato durante il secondo esecutivo di Giuseppe Conte, con un emendamento al decreto imprese votato al Senato il 23 ottobre 2019. I continui cambiamenti di rotta del Movimento 5 Stelle portano i tarantini a sentire tradita la fiducia che gli avevano accordato. Altalenante è anche la posizione di altri partiti, in particolare Lega e Pd. Il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, si schiera contro lo scudo penale e ritiene inefficace ciò che sta facendo per l’ambiente il colosso, che è il maggiore produttore di acciaio d’Europa. Nella seconda metà di settembre ArcelorMittal, dopo aver sostituito l’amministratore delegato nominando Lucia Morselli, precedentemente alla guida della cordata concorrente, approfitta dell’occasione per rimettere in discussione il piano industriale, annunciando di voler restituire entro un mese l’Ilva ai commissari, affermando anche l’impossibilità di mantenere gli impegni assunti sul fronte occupazionale e produttivo. La produzione è a circa 4,5 milioni di tonnellate, notevolmente più bassa rispetto alle previsioni, che non possono essere raggiunte anche a causa della crisi mondiale del mercato siderurgico e degli alti dazi americani che hanno portato la Turchia a invadere il mercato europeo. Mentre la magistratura ha dato una ennesima proroga al blocco, previsto per il 13 dicembre 2019, di uno dei tre altiforni ancora in funzione (AFO2) mai messo a norma dalla morte di un operaio, Alessandro Morricella, investito da una fiammata nel 2015. Fra le varie ipotesi in discussione, anche la chiusura dell’area a caldo, che porterebbe al rallentamento della produzione e al licenziamento di circa 5000 lavoratori. E probabilmente a una successiva chiusura di tutto l’impianto, perché l’Ilva senza ciclo integrale difficilmente riuscirebbe a sopravvivere.
La trattativa fra la multinazionale e il governo mette sul piatto varie possibili soluzioni. Mentre potrebbe farsi di nuovo avanti la cordata che non è riuscita ad aggiudicarsi l’Ilva la volta precedente, e si valuta un possibile ingresso dello Stato, si ipotizza anche che la Mittal abbia minacciato il ritiro solo per poter ottenere migliori condizioni e il licenziamento di 5000 operai, visto che le perdite nel 2019 sono state di circa due milioni di euro al giorno. Un’altra ipotesi è che la multinazionale sia entrata in Ilva solo per sbaragliare possibili concorrenti, acquisendo procedure e segreti dei concorrenti, listini e clienti dello stabilimento, per poi smantellarlo e abbandonarlo. Rimane in discussione anche il rientro di quasi duemila lavoratori in amministrazione straordinaria.
Nel dicembre 2019 viene firmato un preaccordo governo-ArcelorMittal per la nascita di una impresa pubblico-privata con la partecipazione dello Stato e la guida della multinazionale. L’accordo ipotizza una transizione verso una progressiva decarbonizzazione, con un mix di altiforni e forni elettrici, e un aumento di produzione fino a 8 tonnellate annue. Ma i termini di questa nuova intesa rinviano solo il rischio di migliaia di licenziamenti.
Nel frattempo si è aperto un doppio fronte giudiziario. Il Tribunale civile di Milano deve esaminare i due ricorsi, quello di ArcelorMittal successivo al recesso, e quello dei commissari governativi che ritengono sia indebitamente esercitato. Alla fine di novembre del 2019, la magistratura rinvia l’udienza valutando che ci siano le base per arrivare a una soluzione della trattativa.
Del dicembre 2019 è il Decreto Taranto, che dichiara come obiettivo il rilancio della città e il supporto agli operai espulsi dalla fabbrica. Un minestrone che prevede tutela del lavoro, della salute, ricerca, completamento delle infrastrutture, ma è privo di coperture finanziarie.
All’inizio di marzo del 2020 viene firmato un accordo in cui la multinazionale e lo Stato annunciano una generica comune volontà di rilanciare il polo siderurgico, azzerando lo scontro legale fra le parti iniziato dopo l’annuncio di disimpegno da parte di ArcelorMittal. Rimangono però aperte alcune questioni centrali, in primo luogo la tutela dell’occupazione e della salute di cittadini e lavoratori.
Mentre le istituzioni continuano con i loro balletti, nella città prosegue il dibattito su una possibile via d’uscita. Ma nessuna appare percorribile nel breve periodo. C’è chi auspica la chiusura totale della fabbrica in prospettiva di un improbabile ritorno alle tradizioni marinare, chi riflette su una riconversione analoga a quelle avvenute nelle acciaierie di altri paesi, chi individua nella nazionalizzazione l’unica strada per salvare ambiente, salute e lavoro. In ogni caso, sempre più i tarantini vogliono staccare le loro sorti dall’azienda siderurgica. Anche perché, quando sarà fermato l’inquinamento, i danni proseguiranno almeno per due generazioni. In una città che oggi deve sopportare il peso anche dei cantieri navali, della raffineria Eni, di impianti di produzione di cemento. E con i mari ostaggio dell’arsenale militare e di navi da guerra.
Siamo all’estate 2020. Ma la storia continua….